Il Blog dell'Ordine degli Avvocati di Messina

Diritto di morire e autodeterminazione responsabile

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Fabiano Antoniani, Dj Fabo, muore lunedì 27 febbraio alle 11.40 in Svizzera.
Dj Fabo, tetraplegico e cieco in seguito a un incidente stradale, ha scelto di morire.
Come qualcuno ha opportunamente sottolineato, “non solo per lavorare con dignità, ma anche per morire con dignità bisogna emigrare dall’Italia”. E Fabo è morto in Svizzera, perché il nostro Paese non ha ascoltato il suo appello.
Ognuno dovrebbe essere libero di scegliere. La vita dovrebbe includere anche la libertà di decidere come e quando interrompere la persistenza di una esistenza vegetativa.
Il rispetto della libertà altrui è un principio intangibile in una società che rispetti la persona umana, ponendola al centro del sistema, quale valore primario e assoluto.
Com’è noto, il diritto di morire rappresenta uno dei temi maggiormente dibattuti in dottrina, in giurisprudenza ed a livello politico-legislativo. L’argomento è alquanto delicato, poiché concerne profili di carattere religioso e abbraccia, sostanzialmente, tutti i rami del diritto, chiamando in causa anche (e, forse, soprattutto) la sensibilità di ogni singolo individuo.
Il tema dell’eutanasia divide le coscienze di un Paese come il nostro che ha profonde radici cattoliche che, inevitabilmente, influiscono sulla stessa visione dell’esistenza.
È assai nota la vicenda di Piergiorgio Welby; l’interesse da essa suscitato dipende dalla complessità della storia e dalla difficoltà di giungere ad una soluzione a causa della mancanza di una disciplina normativa sui confini di rilevanza della volontà del malato nel rapporto di cura con il suo medico. Welby era affetto da una logorante malattia: la distrofia muscolare degenerativa. Negli anni questa patologia lo ha condotto, dapprima, all’immobilizzazione totale degli arti inferiori e, successivamente, al coma. Nel momento del risveglio egli non era più in grado di nutrirsi, né di respirare autonomamente, la malattia gli aveva inibito tutti i movimenti del corpo ad eccezione di quelli labiali ed oculari in relazione ai quali non esistevano trattamenti sanitari in grado di arrestarne l’evoluzione; la sua qualità di vita era, quindi, notevolmente scemata.
Dopo anni di lunghe sofferenze, Welby lancia un accorato appello alle istituzioni, affinché possa porre fine alla sua esistenza. Egli è capace di intendere e volere, pertanto, la legge dovrebbe proteggere il suo diritto di decidere quando rifiutare un intervento esterno sulla propria persona, così come espressamente sancito dall’art. 32 della Costituzione.
Nonostante le richieste fossero espresse in un ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c., il Tribunale nega il suo diritto al rifiuto delle cure con un ordinanza del dicembre 2006, che ha fondato il rigetto della questione sulla mancata esistenza, nel nostro ordinamento, di una disciplina specifica in relazione al divieto di accanimento terapeutico, nonostante tale divieto sia contemplato dal codice di deontologia medica, dai trattati internazionali e dalla stessa Chiesa, che ravvede in tale divieto l’unico limite al dovere delle cure; una terapia si dirà, infatti, doverosa solo se apporti un beneficio al paziente.
Nonostante tale affermazione, l’ordinanza non nega l’esistenza dei principi enunciati nel ricorso, che trovano fondamento, nella Carta Costituzionale, con particolare riferimento all’autodeterminazione ed al diritto di rifiutare o interrompere le cure, agli artt. 2, 13 e 32; oltre che nella Carta Europea del diritti dell’uomo.
Il Tribunale ha ritenuto prevaricante il principio di indisponibilità del bene vita: nonostante il riconoscimento costituzionale del «divieto di accanimento terapeutico» e del contestuale «diritto a rifiutare le cure», questi sono sostanzialmente condizionati ad una legge ordinaria che ne assicuri concreta attuazione.
L’azione civile proposta da Welby risultava inammissibile, non perché fosse priva di fondamento, ma piuttosto perché l’attuazione del diritto che viene riconosciuto proprio dal ricorrente, non sarebbe sufficientemente disciplinato dalla legge nelle sue modalità esecutive.
Il Tribunale motiva, quindi, elencando l’esistenza di altre norme che, al contrario, puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione al suicidio, dalle quali si desume un obbligo giuridico di garanzia del medico di curare e mantenere in vita il paziente.
Il tanto discusso «diritto di rifiuto delle cure» non dovrebbe avere bisogno di discipline specifiche, specie in una situazione del genere in cui il comportamento attivo od omissivo, che dir si voglia, messo in atto dal medico non è stato definito dall’opinione pubblica né come omicidio del consenziente né come eutanasia, ma semplicemente un atto di bontà, che, seppur si sia sostanziato nel distacco del ventilatore polmonare, ha portato l’individuo ad una condizione di serenità a cui non sarebbe arrivato se si fosse protratta la terapia.
Anche a livello internazionale è stato negato il vero e proprio «diritto di morire», si è, infatti, dichiarata l’esistenza di un «diritto al rifiuto delle cure», conferendo liceità alla sola eutanasia passiva consensuale, per cui nessuna conseguenza a catena sarebbe sorta con l’assenso all’esercizio di un diritto fondamentale di Welby o di chi si trovasse nelle medesime condizioni.
Nonostante l’espresso dissenso del Tribunale, però, un anestesista decide di accogliere la tanto accorata richiesta di Welby, che chiedeva, in buona sostanza, che gli fosse riconosciuto un (suo) diritto. Pertanto, si procede al distacco del paziente dal respiratore; ciò ha ovviamente comportato l’apertura di un procedimento penale nei riguardi del medico che dovette rispondere del delitto di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p. In realtà, il medico che agisce nel rispetto del rifiuto delle cure attua un comportamento coperto da una scriminante autonoma, poiché, non solo, risulta lecita la condotta ma, al contempo, l’eventuale esito infausto che non può essere impedito; si richiama, in questi casi, l’applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. ovvero «l’adempimento del dovere». Nella sentenza di non luogo a procedere emanata nel luglio 2007, infatti, la condotta dell’anestesista è stata definita scriminata poiché la fonte del dovere del medico risiede nell’art. 32 Cost., che è fonte di rango superiore rispetto alla legge penale ed inoltre opera l’art. 51 c.p.
È, tuttavia, legittimo che il sanitario chiamato ad ottemperare il diritto di rifiuto delle cure posto dal paziente eserciti il proprio diritto all’obiezione di coscienza, trattandosi di una condotta attiva con la quale in sostanza si realizza la morte di un uomo.
La questione non sarebbe mai sorta se in Italia fosse stata accolta la sollecitazione, più volte effettuata a livello europeo, in relazione alla necessità di dar vita ad una normativa puntuale e specifica sul testamento biologico. Si tratta di una dichiarazione con la quale un soggetto, nel pieno possesso delle sue facoltà, dà disposizioni in merito alle terapie che intende ricevere e a quelle che, invece, vuole rifiutare nel caso in cui si trovi in condizioni di incoscienza o di malattia terminale.
In seguito al riconoscimento delle dichiarazioni anticipate di trattamento effettuato a livello europeo dall’art. 9 della Convenzione di Oviedo, così come dal codice di deontologia medica, sarebbe opportuno che anche il nostro Paese si adeguasse.
Una svolta decisiva in materia è stata realizzata attraverso l’approvazione da parte del Comitato Nazionale per la Bioetica delle dichiarazioni anticipate di trattamento nel 2003.
Su questa linea, l’Italia ha dato vita ad una bozza del testo normativo sull’eutanasia, che non è mai stata discussa in Senato. I motivi ostativi al riconoscimento di una normativa in proposito sono i più vari. Inizialmente, si è ritenuto che, nel nostro ordinamento, fosse ancora piuttosto controverso il riconoscimento del «diritto di rifiutare le cure». Il diritto a non subire trattamenti medici non voluti, però, è un diritto inviolabile, poiché rientra tra i valori indefettibili al pari del «diritto alla vita e all’integrità fisica».
Nel documento del 2003 del Comitato Nazionale per la Bioetica è stato affermato il «principio della equiestensionabilità» tra volontà anticipate ed attuali.
Inoltre, in un disegno di legge sul testamento biologico è stata prospettata la necessità che la dichiarazione fosse racchiusa in un atto scritto, avente data certa e con sottoscrizione autenticata da un notaio o da altro soggetto qualificato, al fine di conferire maggiore validità al documento stesso.
Il Senato, nel 2009, in occasione della vicenda Englaro, ha approvato un disegno di legge sul testamento biologico, che, ove fosse stato ratificato, avrebbe messo in seria crisi il principio di autodeterminazione responsabile. Veniva, infatti, effettuata una distinzione tra terapie di idratazione ed alimentazione e trattamenti sanitari; mentre questi ultimi sono di norma rinunciabili, non sarebbe stato possibile rifiutare le terapie di idratazione ed alimentazione, così come espresso nella convenzione di New York del 2006, che parifica, in modo assai discutibile, i soggetti disabili a coloro che vivono in stato vegetativo.
La legge sulle direttive anticipate di trattamento ha, perciò, una portata meramente orientativa o indicativa sul consenso del paziente, in quanto si prevede la possibilità per il medico di discostarsene.
Si offre, quindi, una disciplina assolutamente anomala ad uno strumento, come quello del testamento biologico, in grado di rispettare l’autodeterminazione del paziente senza violare alcun principio ideologico e culturale dell’ordinamento giuridico che lo adotta.
Alla luce della necessità di creare una disciplina sul testamento biologico, va ricordata l’esistenza di materie nelle quali il diritto penale interviene solo se non è stata rispettata una procedura amministrativa in grado di realizzare, con le dovute garanzie, un accertamento tecnico che richieda speciali competenze; si tratta sostanzialmente dell’applicazione delle scriminanti procedurali che potrebbero rappresentare un’idonea soluzione per la normativa sul «fine vita». Esistono due tipi di scriminati: quelle aventi ad oggetto un comportamento di per sé lecito, disciplinato in via amministrativa e sanzionato penalmente nel caso in cui vi sia una violazione dei limiti del rischio consentito, ed i casi in cui la condotta già penalmente illecita è scriminata in via amministrativa, poiché il rischio consentito è frutto di una regolamentazione da parte di soggetti o comitati competenti a bilanciare i profili etico – giuridici della scelta da compiere; si tratta quindi di un’autorizzazione operante come causa di giustificazione.
Si mira a verificare i requisiti di sussistenza del consenso prestato dal soggetto interessato alla procedura. In tali casi, l’applicazione di una scriminante procedurale potrebbe essere risolutiva: infatti, in tutte le ipotesi di «eutanasia passiva consensuale», attraverso l’art. 32 Cost., questa avrebbe un’efficacia meramente dichiarativa, poiché si dovranno verificare unicamente i requisiti inerenti alla procedura; qualora invece dovesse trattarsi di «eutanasia passiva non consensuale» la scriminante opererebbe quale parametro per la liceità della condotta di interruzione delle terapie di sostegno vitale.
In conclusione, la dolorosa vicenda di DJ Fabo, con il suo itinerario alla ricerca della legittima morte dignitosa, ci riporta drammaticamente all’urgenza di dotarci di una legge sul testamento biologico, poiché un Paese maturo, civile e autenticamente laico non può rinunciare a garantire dignità all’individuo, lasciandolo libero di autodeterminarsi in scelte così personali.

 

Simona-Raffaele
Simona Raffaele

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