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Cassazione: è «essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale»

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La sentenza è una di quelle destinate a fare discutere a lungo, infiammando ancora una volta il dibattito su multiculturalità e integrazione.
La prima sezione penale della Corte di Cassazione, con decisione n. 24084, depositata lo scorso 15 maggio, ha rigettato il ricorso con il quale un indiano Sikh aveva impugnato la pronuncia che lo aveva condannato per il reato previsto dall’art. 4 della legge n. 110/1975 (porto di armi od oggetti atti ad offendere). L’imputato era stato trovato dalla polizia in possesso di un coltello, portato alla cintura, e si era opposto alla richiesta di consegnare l’arma sostenendo che il comportamento si conformasse ai precetti della sua religione, essendo egli un Sikh. Il giudice di merito che lo aveva condannato aveva però ritenuto che le usanze religiose integrassero solo una “consuetudine della cultura di appartenenza” e che non potessero avere l’effetto abrogativo di una previsione penale dettata a fini di sicurezza pubblica.
Punto centrale della questione affrontata era la possibilità di qualificare la libertà di religione tutelata dall’art. 19 Cost. come “giustificato motivo”, idoneo (secondo quanto previsto dalla stessa legge del 1975) a escludere il reato. Era, infatti, questa la pretesa del ricorrente.
La Cassazione sottolinea come la giurisprudenza abbia sempre affermato che il giustificato motivo ricorre “quando le esigenze dell’agente siano corrispondenti a regole relazionali lecite rapportate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento e alla normale funzione dell’oggetto”. Così, ad esempio, si reputa giustificato il porto di un coltello da chi sta andando a potare alberi o del bisturi, nella borsa, da parte del medico-chirurgo che sta andando a visitare pazienti. E, tuttavia, osserva ancora la Cassazione, lo “stesso comportamento posto in essere dai medesimi soggetti in contesti non lavorativi non è giustificato e integra il reato”. Un chirurgo che portasse con sé i ferri del mestiere a una cena di gala difficilmente potrebbe appellarsi con successo al “giustificato motivo”.
È, dunque, necessario contestualizzare il comportamento per poter operare un bilanciamento ragionevole tra i principi e i diritti in gioco che, in questo caso, sono la sicurezza, da una parte, e la libertà di religione, dall’altra.
Dalla sentenza impugnata si evinceva che, al momento in cui era stato effettuato il controllo di polizia, l’imputato si trovava per strada e teneva il coltello nella cintola. Egli aveva sostenuto che il porto del coltello fosse giustificato dal credo religioso per essere il Kirpan “uno dei simboli della religione monoteista Sikh” e aveva invocato la garanzia posta dall’art. 19 Cost.
La Cassazione non ha ritenuto, tuttavia, che “il simbolismo legato al porto del coltello possa comunque costituire la scriminante posta dalla legge”. La soluzione appare corretta. Nella democrazia pluralista, come ha affermato anche la Corte costituzionale, nessun principio o diritto, per quanto qualificato come fondamentale, può considerarsi assoluto o illimitato; se vi fosse un principio prevalente in ogni contesto e in ogni situazione, esso diverrebbe “tiranno”, mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’ordinamento democratico (Corte cost., sent. n. 85/2013). Nessuna gerarchia può, dunque, farsi in astratto tra principi o diritti egualmente fondamentali (Ruggeri). In concreto, tuttavia, si verificano continuamente conflitti anche drammatici (come, ad esempio, quello avutosi nel “caso Ilva” – deciso con la pronuncia della Corte costituzionale da ultimo richiamata – tra diritto alla salute e diritto al lavoro). Tali conflitti impongono di fare delle scelte, che devono risultare equilibrate, ragionevoli, poiché nella loro assunzione deve tenersi conto dei contesti di volta in volta rilevanti. E tali scelte possono giocare una volta a favore dell’uno e una volta a favore dell’altro dei principi o dei diritti fondamentali in campo.
E così, se si assume tale punto di vista, la pronuncia della Cassazione appare comprensibile: il kirpan è un pugnale atto ad offendere, per quanto dotato di una connotazione simbolica e religiosa. Non si tratta certo di uno strumento che serve a curare i malati o a svolgere lavori di giardinaggio. Esso è e rimane un’arma e trae la propria connotazione simbolica proprio dal fatto di essere un’arma. Tale connotazione non ne esclude, ma anzi ne presuppone l’uso come strumento di offesa e tanto basta per ritenere insussistente l’ipotesi del “giustificato motivo”.
A non convincere, però, è un passaggio della motivazione, nel quale si qualifica come “essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi”; e si evoca, inoltre, una “unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro Paese” che individuerebbe “la sicurezza pubblica come un bene da tutelare”, ponendo, a tal fine, il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere. La formula, non facilmente decifrabile, dei “valori occidentali” e il riferimento a una presunta “unicità culturale”, che non è dato riscontrare e che, del resto, non costituisce nemmeno un fine da perseguire per un ordinamento come il nostro, che invece ha il compito costituzionale di riconoscere e promuovere il pluralismo in tutte le sue declinazioni, finiscono con il togliere forza argomentativa a una sentenza, il cui dispositivo appare, invece, nella sostanza, condivisibile.

 

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Alessandro Morelli

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