Il Blog dell'Ordine degli Avvocati di Messina

La riforma della prescrizione e la legge di Murphy

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Chi, per mestiere, frequenta le aule di giustizia degli uffici giudiziari sui quali grava un notevole carico di lavoro sa bene che una delle norme del c.p.p. più violate è l’art. 477, il quale – sotto la rubrica «durata e prosecuzione del dibattimento» – così dispone al primo comma: «quando non è assolutamente possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente a quello festivo».
È qui sancito il principio di concentrazione (o di continuità) del dibattimento, già previsto dall’art. 431 c.p.p. Rocco e, in precedenza, dall’art. 140, comma 8 c.p.p. Zanardelli e dall’art. 342 del Regolamento generale giudiziario del 1865 (una sorta di figlio nato prima del padre, cioè del principio della ragionevole durata del processo, introdotto nell’art. 111 Cost. solo nel 1999); la regola è che in un’unica udienza si acquisiscano le prove e il giudice, terminata l’istruttoria, pronunci la sentenza.
Questa definizione di concentrazione, alla prova della realtà, si risolve in una concentrazione di sogni irrealizzati.
Secondo i dati riportati dal «Monitoraggio della giustizia penale – Secondo trimestre 2016» diffusi dal Ministero della Giustizia, un giudizio penale di primo grado, svolto con rito monocratico, dura in media 591 giorni (in leggera riduzione rispetto all’anno 2014, in cui ne occorrevano 610); svolto con rito collegiale, ne servono 644 (a fronte dei 672 del 2014).
Al raggiungimento di questi, poco lusinghieri, tempi (ormai metabolizzati dagli operatori del diritto, ma tutt’altro che digeribili dal cittadino che, una tantum, ha a che fare con un processo) contribuisce (insieme con le ricorrenti astensioni di avvocati e magistrati onorari, le nullità delle notifiche, le assenze del giudice, i legittimi impedimenti dell’imputato e del difensore, e via elencando) la menzionata violazione dell’art. 477, comma 1 c.p.p.: la regola è diventata quella per cui è sempre assolutamente impossibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, nella quale si celebrano decine di altre cause; perciò, lo stesso dibattimento dev’essere rinviato, ma è altrettanto assolutamente impossibile il suo differimento dal venerdì al lunedì, perché il lunedì successivo il giudice non tiene udienza o, se la tiene, è già (stra)colma di processi in precedenza fissati.
Che fare, allora, per anticipare la definizione del giudizio di primo grado?
Al di là di soluzioni draconiane (del tipo: il contraddittorio nella formazione della prova fa perdere troppo tempo; si torni ad un più spedito sistema inquisitorio), per evitare la sistematica violazione dell’art. 477, comma 1 c.p.p., in estrema sintesi, è possibile agire (e, in effetti, s’è agito) sui seguenti fronti: a) risorse; b) procedura penale; c) diritto penale.
Il primo intervento rappresenta la soluzione tranciante del problema. Per meglio amministrare la giustizia penale, devono essere implementati (in misura ragguardevole)  personale e strutture: più cancellieri, più magistrati, più aule, più trascrittori, più tecnologia, ecc. Tutto ciò comporterebbe un (ragguardevole) costo per il bilancio dello Stato. E siccome il portafoglio dell’Italia è vuoto, questa tipologia d’intervento è sempre stata marginale.
Sicché, non potendoci permettere la migliore terapia, la situazione è andata sempre peggiorando; e quando le cose vanno di male in peggio – per dirla con la legge di Murphy – il ciclo è destinato a ripetersi. Innanzi al tumore con metastasi diffuse, infatti, s’è fatto ricorso a cure palliative, che, nel nostro caso, costano poco (o nulla) ma risolvono meno.
S’è spesso agito sul versante processuale. In tale ordine di idee, l’obiettivo di decongestionare i tribunali è stato, ad esempio, perseguito: incentivando il ricorso ai riti speciali (e creandone nuovi); estendendo i confini dell’archiviazione; attribuendo una competenza penale al giudice di pace chiamato a decidere su reati c.d. bagattelari con una procedura più snella (ma che, in una eterogenesi dei fini, ha generato – sempre a causa della scarsità di risorse – un processo, anch’esso, con tempi monstre).
Quanto al versante penale, si è, talora, seguita la strada della depenalizzazione, che è cosa buona e giusta ed andrebbe percorsa con più coraggio (ma, in questo periodo storico, depenalizzare finisce per penalizzare il politico, il quale, non a caso, molto spesso ha seguìto l’opposta via della penalizzazione).
Da ultimo, con il disegno di legge C 4368 (c.d. riforma Orlando), approvato dal Senato il 15 marzo 2017 e attualmente all’esame in Assemblea alla Camera, si propongono, tra l’altro: l’estinzione del reato per condotte riparatorie e la definizione del procedimento per incapacità irreversibile dell’imputato. Altre cure palliative, per l’agonizzante nostro processo penale.
Sennonché, la riforma interviene anche sulla prescrizione, allungandone i tempi. Si tratta di una modifica che, verosimilmente, avrà un impatto devastante sui tempi del giudizio di primo grado, nel senso che contribuirà a consolidare la sistematica violazione del principio di concentrazione. Nei confronti del processo penale, malato di eccessiva lunghezza, tale novella potrebbe assumere il ruolo della “spina staccata”: il paziente non viene più curato; lo si uccide.
Una tale drastica prognosi è fondata sull’analisi della quotidianità giudiziaria.
Fino ad oggi, solitamente, il giudice che deve decidere su di un reato a rischio prescrizione imprime al processo un ritmo serrato, soprattutto quando v’è costituzione di parte civile: i rinvii delle udienze, infatti, sono contenuti in un numero di giorni accettabile (benché sempre ben lontano da quello previsto dall’art. 477 c.p.p.). Ciò perché, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., il giudice d’appello, qualora riformasse la sentenza di condanna pronunciata in primo grado per la sopravvenuta prescrizione, dovrà comunque decidere sull’impugnazione in relazione alle disposizioni e ai capi della sentenza impugnata riguardanti gli interessi civili. Insomma, in questi casi, già in primo grado, si sa che il morituro fatto illecito penale perirà certamente nel prosieguo del procedimento; ma si lavora alacremente per “salvarne” la rilevanza civile.
La riforma Orlando, invece, posticipa la morte del reato; così, il giudice di prime cure non sarà più costretto a correre. La prassi, infatti, dimostra come la lunghezza del rinvio sia direttamente proporzionale alla lontananza della prescrizione: se la prescrizione maturerà tra cinque anni, il rinvio sarà di dieci mesi; se maturerà tra cinque mesi, sarà di dieci giorni. Secondo i dati riportati dalla Fondazione Luigi Einaudi nel report «Il Costo della (in)giustizia Italiana», ci vogliono in media dodici anni per arrivare ad una sentenza di condanna per bancarotta fraudolenta; come mai, visto che la prova di questo delitto ha, essenzialmente, natura documentale? Perché la sua prescrizione è pari a quindici anni.
Che quello appena detto sia il criterio che orienta il giudice nel fissare la data dell’udienza di rinvio è confermato dal fatto che, quando s’è in presenza di un’ipotesi di sospensione del corso della prescrizione per l’intero periodo intercorrente tra l’udienza ad quem e quella a quo (ad esempio, quando c’è una richiesta difensiva dell’imputato o del suo legale), la data del differimento viene individuata molto in là.
Si dirà (e da più parti, molto autorevoli, lo si è detto): una prescrizione più lunga evita l’impunità. Vero. Ma privare della libertà personale un quarantenne per un delitto commesso quando era trentenne può davvero adempiere quella funzione rieducativa contemplata dall’art. 27, comma 3 Cost.? In dieci anni di processo (che come insegnava Carnelutti è sempre una pena) è proprio quest’ultimo che ha, anticipatamente (rispetto alla pena), già rieducato l’imputato.
Si dirà: ciò non vale per chi continua a delinquere. Vero. Ma per risolvere il problema sarebbe sufficiente, per tale caso, che il tempo per prescrivere fosse procrastinato per i recidivi.
In definitiva, la convinzione è che aumentare il tempo della prescrizione dilaterà la durata dei processi; conseguentemente l’Italia continuerà a perdere danari, posto che – stando alla stima fatta a suo tempo da Mario Draghi – la lentezza della giustizia italiana genera costi pari all’1,3% del PIL; e avremo, perciò, meno soldi da destinare a quelle riforme strutturali che, davvero, potrebbero rivitalizzare il processo penale. Così, sarà confermata la legge di Murphy: quando le cose vanno di male in peggio, il ciclo è destinato a ripetersi.

 

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Alessandro Vitale
Avvocato penalista e docente alla SSPL della LUISS – Guido Carli di Roma

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